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Lev - Nubian - 3 - Io non Dimentico

III
Io non dimentico


Un brivido corse lungo la schiena di Sapphire quando mise piede fuori dal jet che l’aveva portata a Giubilopoli. La pista di atterraggio era completamente bagnata e la neve aveva anche messo in difficoltà i piloti al momento dell’atterraggio, ma ciò che più rendeva quella condizione climatica tanto ostile era il vento gelido e tagliente che incideva la pelle come la lama di un coltello.
«Ma come diavolo fanno a vivere a queste temperature?» si chiese la ragazza, cresciuta con il clima tropicale di Hoenn.
Gold scese dal velivolo dopo di lei. Salutò la regione di Sinnoh con un violento starnutò, cui seguì un’imprecazione e la ricerca di un fazzoletto.
Ruby mise per ultimo i piedi sulla terraferma. Lui non percepiva le temperature, quindi si limitò ad alitare per controllare la densità della nuvoletta di vapore che uscì dalla sua bocca, tanto per saggiare quanto quel clima fosse proibitivo.
I tre Dexholder furono intercettati da alcuni addetti dotati di indumenti catarifrangenti che guidavano un carrello con sopra le loro valigie. Ripresero immediatamente i bagagli e si incamminarono verso l’ingresso dell’aeroporto, infagottandosi goffamente nei loro piumini.
«Ci sono meno cinque cazzo di gradi» annunciò Gold leggendo le cifre sul suo Cellulare «è il maledetto luglio».
Uscirono dal complesso, passando inosservati agli occhi dei potenziali fan rompiscatole e si ritrovarono di fronte all’auto che utilizzata per il trasporto del Campione di Hoenn fuori dalla sua regione. Poco tempo dopo la sua elezione, Ruby si era occupato personalmente della selezione del modello, cambiando la vecchia Mercedes scelta anni prima da Rocco. Gold rimase con la bocca spalancata, di fronte a quella Jaguar XJ modello limousine dalla carrozzeria nera scintillante. Un macchinone del genere aveva attratto l’attenzione di tutti i presenti, facendo sembrare ogni utilitaria e ogni altra berlina che le passasse vicino come una sorta di carretto sgangherato. Ruby aprì la portiera per i suoi compagni, entrando per ultimo e chiudendosela alle spalle. L’autista che li aveva attesi pazientemente aveva già impostato Evopoli come meta sul navigatore di bordo.
«Insomma, dura la vita da Campione» scherzò il Dexholder di Johto affondando placidamente nel sedile di pelle «dov’è il secchio con lo champagne?»
«Non c’è, lo faccio portare solo per le occasioni speciali» ribatté Ruby, sorridendo.
«Tipo quando sei con qualche modella di Vogue?»
«Le modelle non bevono, altrimenti perdono la linea, con devi direttamente...»
«Vi sembra il momento?» si intromise Sapphire, seccata.
Gold sbuffò, Ruby alzò le sopracciglia.
«Chi hai detto che ci sta aspettando a Evopoli?» chiese la ragazza.
«Aurora, la Capopalestra di Porto Stellaviola, più qualche altro alleato» rispose Gold «e dovrebbe esserci anche Celia» aggiunse.
«Parli della nuova Capopalestra di Vivalet?» domandò Ruby.
«Sì, a quanto pare ha dei collegamenti con la Resistenza anche lei e ultimamente non è nella sua città» precisò Gold,
«Ho letto qualcosa su di lei quando ha conquistato il posto: era un’Allenatrice come le altre quando Antares, il Campione di Sidera, l’ha presa come allieva. Ha conquistato il posto di Capopalestra grazie alla raccomandazione del suo insegnante, sembra che sia un soggetto... particolare».
«Che vuol dire?» chiese Sapphire.
«Da tenere d’occhio» rispose lui «o almeno questo era scritto sui database della Faces.
«Quindi potrebbero aver capito che fa parte di un gruppo che trama per sventare i loro piani» dedusse Gold.
«Beh, non vorrei giudicare senza conoscere, ma non mi sembra una davvero capace di custodire un segreto così importante, potrebbe essersi fatta sfuggire qualche informazione» commentò Ruby, quasi sprezzante.
«Potrei capire che cos’ha di tanto strano questa Celia?» domandò Sapphire, che conosceva la ragazza di cui stavano parlando soltanto di nome.
Ruby annuì, digitando il nome della Capopalestra di Vivalet su un tablet che aveva estratto dallo sportello alla sua destra. Entrò nella sezione notizie di Google e lesse i primi titoli che reputò interessanti a voce alta.
«Capopalestra di Vivalet: assenza al galà di apertura del torneo, fotografata ubriaca ad un rave party; Celia, la giovane ribelle, l’accusa dei genitori dei fan: accanita fumatrice anche se ancora minorenne; Esibizionismo alle Supergare di Sidera, l’allieva di Antares scoperta... oh, merda, questa me la ricordo bene, ero presente» mormorò Ruby, senza leggere la notizia fino alla fine.
«Non mi piace» commentò Sapphire, gonfiando le guance.
«Bah, ormai quelli che fumano sono solo minorenni» affermò Gold, non dando troppo peso alla cosa.
«In ogni caso, stiamo attenti, non si sa mai quale...»
Tonk!
I tre ragazzi ebbero un sussulto. Il forte suono sembrava esser stato prodotto dall’esterno, come se qualcuno avesse colpito con forza l’automobile. I loro occhi balzarono da un finestrino all’altro, finché non individuarono il responsabile.
«Che cazzo sta succedendo?» mormorò Gold.
Un uomo sulla quarantina aveva assaltato l’auto di Ruby, colpendo con forza il finestrino con una stampella. Era mal curato, con la barba rada e grigiastra, la pelle rovinata e gli occhi ardenti di rabbia. Gridava qualcosa di indefinibile e continuava a sbattere il pugno sulla carrozzeria della Jaguar. Nessuno riuscì a capire integralmente cosa volesse dire, ma distinsero bene gli insulti lanciati nei confronti di Ruby e i suoi inviti ad uscire dall’auto per affrontarlo di persona. Evidentemente, aveva avuto l’opportunità di attaccare l’auto del Campione di Hoenn quando questa si era fermata ad un semaforo ed era pure andato alla cieca, poiché dall’esterno era impossibile guardare chi fosse dentro l’auto a causa dei vetri oscurati.
Intanto, il delirio del pover’uomo aveva attratto una capanna di curiosi e un paio di poliziotti, che si erano avvicinati con l’intento di calmarlo e magari anche accertarsi che non arrecasse danni a nessuno. Erano riusciti ad afferrarlo per le braccia e ad immobilizzarlo a qualche metro di distanza dalla Jaguar, quando il semaforo si fece verde, permettendo all’autista di Ruby di accelerare.
«Aspetta, fermo, accosta!» ordinò il ragazzo, ancora sospeso tra lo stupore e la paura.
L’autista seguì gli ordini e si fermò sul limitare del marciapiede, invece di continuare a muovere l’auto lontano da lì. Ruby scese, tenendo la cintura delle Ball stretta nella mano.
«Fermati, fermati o saremo costretti ad immobilizzarti con la forza!» stava gridando uno dei poliziotti, tenendo il braccio destro dell’uomo.
«Maledetto! Maledetto assassino!» gridava invece lo sconosciuto con gli occhi fiammeggianti rivolti verso Ruby.
«Che succede?» chiese il Campione di Hoenn.
I poliziotti non si curarono di lui, stavano solo svolgendo il loro lavoro di custodi della sicurezza e si accertarono solo che Ruby non si avvicinasse troppo al suo assalitore. Quest’ultimo, invece, con la comparsa del ragazzo sembrava esser divenuto dieci volte più combattivo.
«L’hai ucciso! Ci hai condannati tutti!» continuava a gridare l’uomo, nonostante i poliziotti stessero evidentemente perdendo la pazienza.
Non appena videro Ruby, il famoso Campione di Hoenn, le persone ferme a guardare cominciarono a moltiplicarsi, diventando sempre di più. Qualcuno tirava fuori il telefono e fotografava o riprendeva la scena con la fotocamera.
«Di che cosa parli?» chiese Ruby a voce alta, rivolgendosi all’uomo che aveva assaltato la sua auto.
Quello parve trovare il primo momento di calma nell’attimo in cui il ragazzo gli prestò attenzione: «Sei un assassino» lo accusò tenendo il suo tono di voce più basso «hai ucciso Rayquaza!»
Ruby non ribatté. L’uomo aveva smesso di dimenarsi e i poliziotti ne avevano approfittato per immobilizzarlo. Era zoppo e infatti per muoversi normalmente era costretto ad utilizzare una stampella. I due agenti gli permisero un momento di quiete, lasciando che Ruby ci parlasse faccia a faccia.
«L’hai ucciso! Tutto questo è colpa tua! Hai ucciso il drago dei cieli e ora il cielo distruggerà noi!» continuò quello.
Gold e Sapphire, che erano alle spalle di Ruby, non entrarono nella conversazione e, poiché neanche il Campione di Hoenn sembrava voler dare una risposta, i poliziotti decisero di portare via l’individuo.
«Lasciatelo andare» ordinò Ruby, riprendendo la mobilità «non torcetegli un capello» proseguì, avvicinandosi all’uomo.
Quello sembrò storcere il naso, quando ebbe il ragazzo troppo vicino al suo volto. Gli mostrava il lato del volto, come se guardarlo gli desse disgusto.
«Sei rimasto ferito nell’incidente di Vivalet?» gli chiese Ruby a bassa voce.
Quello strinse i denti, ma annuì impercettibilmente. Sapphire e Gold distolsero gli sguardi, per il senso di stretta allo stomaco che si manifestò in loro.
«So che non servirà a nulla, ma ti chiedo scusa» sussurrò il Campione di Hoenn, curandosi che la sua voce fosse più bassa possibile, in modo da non essere percepita da coloro che erano intorno o dai microfoni dei loro cellulari.
«Beh, hai ragione» mormorò l’uomo, quietandosi completamente «le tue scuse non servono a nulla, per me» sibilò, sputando sul volto di Ruby.
Non sarebbe stato capace di liberarsi dalla stretta dei poliziotti, ma nei suoi occhi si leggeva quanto ardesse il suo desiderio di scagliarsi contro il ragazzo e ucciderlo a mani nude.

La camera di Blue era un disastro. Sul terreno giacevano ancora tutti i vestiti che lei aveva estratto dal suo armadio in compagnia delle lenzuola stropicciate, dei cuscini e dei peluche che precedentemente si trovavano sul letto. Green teneva gli occhi chiusi, ma non dormiva affatto: stringeva il corpo di Blue al suo cercando di condividerne il calore. Blue lasciava che il ragazzo la trattenesse, anche lei faceva finta di dormire.
Ad un certo punto, il Cellulare di uno dei due prese a squillare.
«E’ il mio» mugolò il Capopalestra di Smeraldopoli. Si alzò lasciando Blue al freddo e lo estrasse dai pantaloni che aveva gettato malamente sul pavimento. Lesse il nome di Gold sullo schermo. Rispose.
«Che vuoi?»
«A che punto siete? Noi abbiamo appena raggiunto Evopoli» disse il Dexholder di Johto.
«Ahem, abbiamo avuto un contrattempo, ritarderemo, siamo ancora a Kanto» spiegò Green.
«Che rottura di palle, fate come volete...»
«Ci risentiamo».
«Sì».
La chiamata terminò.
Green si voltò verso Blue che, ancora nuda sul letto, lo guardava con in volto il barlume di un sorriso.
«Sono già arrivati a Evopoli» la aggiornò Green.
«Ci aspetteranno» fece lei «vieni qui» lo invitò.
Green tornò ad affondare il volto nei suoi profumati capelli castani. Era stanco di tutto e stare con Blue riusciva a fargli dimenticare lo stress come fosse una droga oppiacea.
«Sei bellissima» le sussurrò, in una delle sue rarissime manifestazioni di affetto.
«Lo so» scherzò lei.
Si abbracciarono per qualche secondo nel silenzio più totale.
«Puoi uscire, per favore» chiese Blue ad un certo punto.
«Perché?» nella voce di Green c’era un debole tono allarmato.
«Devo cambiarmi» spiegò.
Green non riuscì a connettere logicamente i due concetti: Blue era quel tipo di ragazza che ti invita ad entrare con lei nel camerino di un negozio, che dorme con la addosso la tua t-shirt e basta, che al mare perde “involontariamente” il costume solo per vedere che effetto fa.
«Che succede?» chiese il ragazzo, percependo la debole emergenza.
«Niente... dai, esci» continuò lei.
«Blue» il Capopalestra di Smeraldopoli si mise seduto, prendendo le mani della ragazza e guardandola negli occhi «dimmi che succede» disse, con voce calda e paterna.
Quella sospirò, infastidita. Aveva gli occhi altrove, per non dover reggere l’intenso sguardo del ragazzo.
«Blue...»
«Hai messo i pantaloni sul bordo del letto!» sbottò lei.
Green rimase basito, non riusciva a capire.
«Hai messo i pantaloni sul bordo del letto...» ripeté.
«Ho messo i pantaloni sul bordo del letto» la imitò Green, cercando di risolvere quell’enigma. Aveva l’orribile sensazione di aver dimenticato una di quelle cose che per le donne sono importantissime mentre per gli uomini contano quanto i peli del naso. Tipo gli anniversari o i vestiti indossati al primo appuntamento. O i figli.
«Hai messo i pantaloni sul bordo del letto, Green!» esclamò di nuovo la ragazza «lo facevi sempre quando venivi a casa dei miei...»
Green rimase ad ascoltare, ormai in ginocchio di fronte alla logica femminile.
«Dopo la prima volta che mio padre ci beccò, hai preso l’abitudine di lasciarli sempre lì, perché potessi metterli in fretta e fuggire dalla finestra, se fosse tornato» spiegò la ragazza.
Effettivamente, quando il ragazzo aveva raccolto i suoi jeans per prendere il Cellulare, li aveva poi sistemati e appoggiati sul limite del materasso in un automatismo quasi abitudinario.
«E’ come prima che ci lasciassimo...» mugolò Blue.
La ragazza aveva paura. Green riuscì quasi a vedere la cosa dal suo punto di vista. Si sentiva in colpa per averlo mollato e aver distrutto la loro relazione e in un certo senso aveva paura che, ripercorrendo quella storia, tutto si sarebbe ripetuto in loop, fino al punto in cui avrebbe di nuovo cercato di essere libera, spezzandogli e spezzandosi il cuore per la seconda volta.
Green metabolizzò ciò che Blue aveva detto, a parole e non, poi si sdraiò di nuovo accanto a lei, facendola adagiare sulla sua spalla. Entrambi guardavano il soffitto, nessuno di loro osava aprire bocca.
Sotto sotto, Green non riusciva a capire come facesse una cosa semplice ad essere tanto complicata, ma non voleva far scoppiare una lite. Dall’altra parte, Blue non sapeva se chiedere al ragazzo di rimanere con lei lì accanto o di uscire dall’appartamento. Quella situazione cristallizzata sembrava non voler cambiare. Green si voltò a guardarla, memorizzando ogni curva, ogni neo, ogni sfumatura della sua pelle. Ebbe quasi la sensazione che quella fosse l’ultima opportunità di vederla così da vicino. Lui era un uomo di poche parole, aveva sempre preferito i fatti alle chiacchiere, eppure, sapeva di dover dire qualcosa in quel momento. Aveva capito che certe situazioni necessitano delle parole giuste tra le infinite possibili, più che della forza nelle braccia.
Blue sembrava essere collegata ad un timer invisibile pronto a scadere da un secondo all’altro. Sapeva che ogni secondo vi era la probabilità che questo conto alla rovescia finisse: a quel punto la ragazza si sarebbe alzata, rivestita e lo avrebbe lasciato solo per sempre, sparendo dalla sua vita.
Green aveva una sola possibilità.
«Questa volta non ti lascio andare» disse, cercando di nascondere il tremolio della sua voce.

Il rumore dei passi dei tre Dexholder era attutito dal manto di neve che aveva ricoperto i marciapiedi di Evopoli. I loro scarponi emettevano ritmicamente quello scricchiolio di neve schiacciata, lasciando al passaggio delle impronte perfette e definite.
«All’edificio del Team Galassia?» chiese Sapphire.
«Sì, siamo noi i cattivi adesso» rispose Gold.
«Come facciamo ad introdurci senza farci vedere?»
«Farci vedere... da chi, di grazia?»
Effettivamente le strade erano quasi deserte. Il quartiere nord di Evopoli poteva sembrare disabitato, eccezion fatta per qualche coraggioso soggetto intento a spazzare il vialetto di casa o a riesumare la propria auto da sotto un cumulo di neve. Girato un angolo, dopo una larga strada a sei corsie, si trovarono immediatamente di fronte alla vecchia sede del Team Galassia. L’eccentrico palazzo era sovrastato da un grande globo metallico con sei grosse punte, circondato da un disco giallo. L’organizzazione capitanata da Cyrus che era stata contrastata dai Dexholder di Sinnoh oltre un anno prima aveva lasciato quel palazzo all’abbandono, dopo essersi sciolta. Alcune vetrate sfondate erano state sbarrate con delle assi e l’intero complesso, compreso di parcheggio e giardino circostante, era stata transennata e bloccata al traffico pedonale. I piani più bassi erano divenuti luogo di assidua frequentazione da parte di tossici e writers, che avevano lasciato porte e finestre divelte e muri graffitati e pieni di scritte.
«Entriamo?» domandò retoricamente Sapphire.
«Quarto piano, c’è una stanza segreta» informò Gold, riferendo le indicazioni fornite da Aurora.
I ragazzi scavalcarono le transenne, facendo attenzione a non essere oggetto di sguardi sospetti. Entrarono uno dopo l’altro nell’edificio, evitando le siringhe e i cocci di bottiglie vuote che ricoprivano il pavimento. Per salire, furono costretti a prendere le scale, facendosi luce in quella fitta oscurità con le torce dei telefoni.
«Accogliente, comunque» commentò il Dexholder di Johto.
Giunti al quarto piano, si guardarono attorno in cerca di coloro che li avevano fatti arrivare fin lì, ma tutti gli uffici erano vuoti. Esattamente come il resto del palazzo, quel piano sembrava abbandonato da secoli: neanche un occhio esperto sarebbe riuscito a dedurre che qualcuno si era introdotto lì poco tempo prima. I tre Dexholder agitavano le torce a destra e a sinistra tentando di individuare qualche sagoma amica, ma ebbero la sensazione di essere davvero soli lì dentro.
«Siamo qui!» esclamò Gold, sperando che qualcuno decidesse di emergere dal proprio nascondiglio.
«Gold, vieni qui, abbiamo trovato qualcosa» chiamò Sapphire.
Il ragazzo tornò dai compagni, che sostavano davanti ad una porta nascosta dietro una delle postazioni di lavoro, era davvero difficile da individuare, poiché era dello stesso colore del muro, priva di elementi che ne rompessero l’uniformità, fatta eccezione per la discreta maniglia e il minuscolo buco della serratura.
«Professionali... hanno organizzato pure la caccia al tesoro» commentò Gold.
Ruby bussò. Passarono alcuni istanti di silenzio.
«Siete in ritardo» disse Kalut, aprendo la porta.
I Dexholder si ritrovarono di nuovo faccia a faccia con il ragazzo dai capelli bianchi che aveva fatto visita all’ospedale poco tempo prima. Kalut li aveva aiutati durante la ricerca a Zero e l’attentato alla Faces, nei giorni precedenti, ma all’ultimo aveva deciso di non consegnare il pericoloso Campione di Holon alle forze dell’ordine, in quanto sarebbe stato un utile risorsa per la Resistenza. Era stato difficile accettare, per i Dexholder, ma la situazione li aveva costretti a fidarsi. In ogni caso, rivedere la faccia di Kalut evocò in loro la sincera voglia di prendere a pugni qualcosa.
«Dove sono gli altri?» chiese il ragazzo dai capelli bianchi.
«Green e Blue sono ancora a Kanto per dei contrattempi, hanno detto di non aspettarci» rispose Sapphire.
«Lui, invece?» Kalut indicò Ruby.
«E’ una spia» disse Gold, entrando nella stanza segreta «fatelo fuori».
«Vuoi andartene con la mia auto?» domandò Ruby.
«Devo presentarvi qualcuno» annunciò Kalut.
Si raccolsero tutti all’interno di quella stanza nascosta, che magari una volta poteva essere stata in uso in quanto archivio segreto o qualcosa di simile. C’era molta polvere nell’aria e non vi erano fonti di luce naturale, solo delle plafoniere di neon tenute accese da un Magnezone che forniva energia ai circuiti dall’esterno.
«Aurora, che Gold già conosce» presentò Kalut, riferendosi la ragazza dai capelli con lo shatush azzurro che era seduta su una scrivania «e Celia, che avrete sentito essere stata da poco eletta come nuova Capopalestra di Vivalet».
Ci furono un paio di strette di mani, ma il clima rimase freddo tra tutti loro, soprattutto dal momento che c’era di mezzo Ruby: Celia, la ragazzina bionda con le occhiaie sul volto, lo studiava come se avesse avuto una bomba sottobraccio che da un momento all’altro sarebbe sicuramente esplosa; Aurora, che ogni tanto lanciava qualche sorriso a Gold, perdeva ogni bagliore di positività quando i suoi occhi si posavano su Ruby.
«Allora, signori... abbiamo alcuni punti di cui discutere» esordì Kalut, richiamando l’attenzione.
Due mani appartenenti ad altrettante persone si levarono al cielo, per chiedere di intervenire. Erano quelle di Celia e Sapphire.
«Dovete andare in bagno?» domandò Gold, massaggiandosi la testa.
«Perché tanta segretezza?» chiese la Dexholder di Hoenn.
«Perché vi stanno pedinando» rispose semplicemente Kalut «ci siamo dovuti procurare la chiave e l’esatta posizione di questa stanza segreta appositamente per questo incontro... per il semplice motivo che avete dei simpatici amici che vi seguono come ombre alle vostre spalle e non ve ne siete ancora accorti» il ragazzo dai capelli bianchi sorrideva senza un vero motivo, il che rendeva tutto ancora più inquietante.
«Stai dicendo sul serio?» chiese Ruby.
«Tu dovresti essere abituato ad avere gente che ti segue ovunque, Vanity Fair» lo canzonò Gold.
«Forse non dovremmo includerlo in questa chiacchierata» intervenne Celia, che aspettava ancora con la mano alzata.
Tutti si voltarono verso di lei. Sapevano bene a chi si riferisse, ma attesero qualche secondo prima di risponderle.
«Hai paura che ti rubi l’anima?» Ruby era infastidito dalla faccia tosta della bionda.
«Sei uno dei nostri principali nemici» ribatté lei, come fosse ovvio.
«Perché sono stato obbligato a lavorare per la Faces? Che deve fare per convincervi che sono dalla vostra parte?»
«Magari smettere di stare dalla loro sarebbe un buon inizio».
«Celia» intervenne Kalut, smorzando la tensione che si stava facendo sempre più accesa «ne abbiamo già parlato».
Ruby scrollò le spalle, evidentemente stufo di essere bersagliato da tutti. Era lampante: aveva evitato di prendere le proprie difese nelle discussioni con i suoi amici per evitare di far scoppiare un grosso litigio, ma nel momento in cui era stato obbligato a discutere degli stessi argomenti con un’esterna, aveva avuto l’impulso di sfogare tutta la rabbia su di lei.
«Sapete bene come la penso» Celia si rimise al proprio posto, scuotendo la testa.
«Silenzio» emerse di nuovo Kalut, sovrastando tutti.
«Tu non ti permettere di...» provò Celia, ma il ragazzo le mise un dito sulle labbra.
Non aveva cercato di calmare le acque, aveva udito qualcosa provenire dall’esterno.
«Sono qui» sussurrò «gli agenti Faces... sono qui fuori».

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