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Lila May - Star★Power - III★




III

Altaria volò fino al ramo, afferrò il giovane per le spalle e lo gettò a terra con la delicatezza di un Ursaring in una cristalleria. Dopodiché, raggiunse tranquillamente Delcatty; comunicò un po’, per convincerlo a montare in groppa, poi gli diede un piacevole passaggio oltre le inferriate del giardino e ritornò dalla sua allenatrice, contenta di aver compiuto una simile buona azione dopo tanto tempo. Il Pokémon gatto ringraziò con un miagolio strascicato, prima di scomparire trotterellando placido per le viuzze di Ceneride.
Orthilla tirò un sospiro di sollievo, lieta del fatto che non si fosse trattato ne di ladri o assassini, ne di giovani stupidi impazienti di consumare. Ma rimaneva comunque una questione irrisolta. Chi era quel tipo? Cosa ci faceva nel suo giardino? E soprattutto, perché non la guardava con odio e disprezzo?
«Come hai fatto a capire che non era mio?» domandò. Sembrava esausto, e si tirò su a fatica, sibilando per il dolore.
«Perché altrimenti si sarebbe fidato di venire tra le tue mani, no?».
«Già…».
Per un po’ tra i due governò il silenzio. Orthilla lo esaminò attentamente, in attesa che lui riprendesse fiato. Occhi cerulei, pelle cotta dal sole, magro, la fronte ricoperta di sudore ombreggiata da folte ciocche castane. Un bel tipo, nulla da aggiungere. E a giudicare dall’espressione grata, non sembrava intenzionato a portarle problemi. Rimase comunque guardinga, pronta ad attaccare in caso di bisogno. Troppe volte si era fidata per rimanerci secca. Non le andava di essere ferita ancora, faceva già molto male così…
«Ah, non so come ringraziarti, tu e il tuo Altaria siete stati la mia salvezza…». Lo sconosciuto si alzò con fatica, poi si guardò le mani. Erano piene di schegge, e parevano provocargli molto dolore.
«Vieni dentro con me» esordì, catturando la sua attenzione. Sotto lo sguardo implorante del ragazzo, si sentì come osservata da due enormi riflettori argentei. Era una calda sensazione, nessuno l’aveva più ammirata con tanto bisogno dopo il misfatto. Le parve di essere l’eroina di una disavventura altrui, e forse era davvero così. «Ti disinfetto le mani e ti offro qualcosa da bere».
Orthilla fece strada tra i rovi, e mentre camminava si sentì in dovere di allentare la mano dalla scopa, più sollevata.


«Ti ringrazio di cuore, non so come sarebbe finita senza il tuo aiuto…».
Orthilla lo guardò da oltre la cucina e sorrise appena; il ragazzo, seduto al tavolo, si toccava la mano bendata con dispiacere, ma sembrava piuttosto a suo agio in quell’ambiente intriso di sofferenza. Il disordine della casa non lo toccava minimamente, e nemmeno il fatto che fosse stata Orthilla, la star più odiata del mondo, a salvarlo. Afferrò il bicchiere di Lemonsucco appena preparato e glielo poggiò davanti, poi si sedette al suo fianco. Se lui non era per niente a disagio, lei lo era fin troppo. Non per il caos irreparabile che soffocava casa sua, bensì per la presenza del giovane. Non era più abituata alla compagnia delle persone, e ora si sentiva… strana. Dopo lo scandalo, il contatto più vicino che aveva avuto erano state le lettere rincuoranti dello zio, in cui veniva spesso sottolineato che tutto sarebbe terminato per il meglio, se continuava a tenere duro. Che era una ragazza forte, e che una simile sciocchezza non sarebbe potuta bastare a spegnere la stella incandescente che vi era in lei. Ma quei preziosi pezzi di carta avevano smesso di arrivare da mesi, ormai, e si era ritrovata del tutto abbandonata ad un destino ingiusto e spietato. Il nuovo Campione, Rocco, era rimasta l’unica corrispondenza con cui poter parlare, ma di rado lo consultava, e di rado lui si faceva sentire, impegnato com’era dietro a sfidanti e paparazzi. Se non fosse stato per Altaria, non ce l’avrebbe fatta a resistere tutto quel tempo in solitudine. Gli occhi del ragazzo posati su di lei la distrassero. Sembrava guardarla con puerilità. Avrebbe voluto essere ammirata per sempre.
Un tepore caldo le avvolse il cuore congelato, iniziando a sciogliere le prime crepe.
«Perché mi fissi?».
«Sei molto carina» ammise lui, per poi attaccarsi avido al bicchiere.
Orthilla rispose con una smorfia, prima di chiudersi nelle spalle. Non era abituata ai complimenti, sapevano di menzogne. Riceverlo era stato pari allo schifo di uno sputo in faccia. Lei, carina? Dove? I capelli spettinati avevano perso la loro brillantezza verdolina, gli occhi il loro vanesio bagliore. Inoltre, era dimagrita tanto da non entrare più in vestiti che, solo qualche mese indietro, le andavano persino stretti. Insomma, rappresentava il degrado umano. E quel soggetto, così all’improvviso, se ne saltava fuori con stupidate simili? Non gli disse che le aveva dato molto fastidio, perché in fondo le aveva regalato una piccola soddisfazione. Cercò di nascondere le due emozioni contrastanti con un sorriso privo di emozione.
Lui se ne accorse, ma fece finta di nulla.
«Mhm… ancora grazie per avermi salvato. Sarei in ospedale, ora…» guardò il bicchiere. «Credo. Il tuo nome è…?».
«Non…». Orthilla sgranò gli occhi, sconcertata. Davvero quel ragazzo non la conosceva? Lei, argomento protagonista di ogni bocca… Orthilla, dannazione! Orthilla!
La venduta, la sanguisuga! La nipote che si era fatta lo zio!
Le venne voglia di piangere. Di sboccare di dolore, davanti a lui, e urlare quanto male sentisse dentro. Spaventarlo, farlo scappare. Ma si trattenne, stringendosi ancora di più nelle spalle.
Come era possibile che, nella situazione in cui si era infilata, ancora qualcuno potesse ignorare la sua triste esistenza in quel pianeta? Lei, una volta famosa per le sue doti da star, ora famosa perché raccomandata.
E lui non lo sapeva. Niente di tutto questo.
«Io…». Preferì non raccontare niente, e fingere che tutto andasse bene. Del resto, non era nessuno. Uno come tanti, capitato lì per sbaglio, che domani avrebbe conquistato la sua inutile medaglia e poi si sarebbe dileguato da quella città, lasciandosi tutto alle spalle. Se mai sarebbe venuto a scoprire qualcosa,  ci avrebbero pensato gli altri. Lei, voleva starne fuori. Aveva già spaventato troppe persone. «Orthilla».
Orthilla. Stop. Nient’altro da aggiungere. Un nome come gli altri. Una persona come le altre.
«Brendan». Il ragazzo le allungò la mano con un sorriso. Le piacque quella chiostra di denti bianchi, le piacque il suo nome. Sapeva di voglia di vivere, quella che lei aveva perduto. Smarrita in un dolore più grande di lei, e che ancora non era riuscita a sconfiggere.
«Allora, Brendan… come mai eri nel mio giardino?».
Questa volta fu lui a rimanere sconcertato. Arrossì vistosamente, prima di parlare.
«Non… io… non avevo idea fosse il tuo giardino».
«Come sarebbe a dire?».
Brendan cominciò a guardarsi intorno, cercando parole per potersi spiegare. Sembrava essersi accorto in quel preciso istante del disordine che lo circondava.
«Uhm… il giardino è grande… e da fuori, beh… la casa sembra quasi in stato di abbandono».
“Come me.” Pensò lei. Ma non lo disse.
«Dunque, subito dopo aver sconfitto il Capopalestra, ho pensato di venirmi ad allenare qui. La prossima tappa è la Via Vittoria, e prima di recarmici voglio potenziarmi per bene». Il ragazzo strinse le mani intorno al bicchiere, infervorato. Lo emozionava parlare di quel grande passo, ma ancora si sentiva troppo piccolo per poterlo affrontare. «Sono mesi che mi alleno in mezzo a questi alberi… passo le notti al centro Pokémon e le mattine a sfidare allenatori. >> guardò la giovane; sembrava piuttosto contraria all’idea di tenere un estraneo nel suo giardino. O forse sollevata di avere un po’ di compagnia? Non lo seppe dire con certezza. Quegli occhi turchesi erano avvolti in una cappa di mistero indecifrabile. «Poi, verso tardo pomeriggio, vengo qui ad allenare Sceptile. Ti prego…».
Dopo qualche attimo di silenzio passato a guardare quel poverino dall’alto al basso, Orthilla prese una decisione.
«Non puoi restare» disse. I motivi erano i seguenti. Prima di tutto, Brendan aveva invaso una proprietà privata. Anche se esteticamente l’abitazione aveva avuto tempi ben migliori, rimaneva comunque abitata, e le inferriate intorno erano un chiaro segnale di divieto all’accesso. Inoltre, sapere di avere a pochi metri di distanza una persona così allegra e piena di speranze in coltivazione la disturbava altamente. Lo invidiava, senza dubbio. Tutta quell’enfasi, quel credere nelle proprie capacità… avere degli obbiettivi… una visione piacevole e allettante della vita che in lei era morta.
«Per favore…» Brendan le strinse una mano.
Orthilla avrebbe voluto gridargli contro. Dentro il suo petto appassito, emozioni inverse si scontrarono all’improvviso, creando un fuoco ardente in cui ruggivano assieme rabbia e disperazione. Il livore per essere rimasta sola tutto quel tempo si mescolò assieme al bisogno di affetto, e il cuore pompò più veloce, arrossendole le gote pallide. Ritrasse la mano, trattenendo il respiro. Non era più abituata a certe cose.
«Ho bisogno di un posto per allenarmi! Mi trovo bene qui…».
«Hai invaso il mio giardino, caro signor Brendan!».
«Non lo avrei mai fatto se avessi saputo della tua esistenza qui dentro! Ma porca boia, non esci mai, che ne potevo sapere?». Brendan si calmò quando la vide balbettare, leggermente offesa, ma mantenne lo sguardo fisso su di lei. Era intenzionato a convincerla. «Sono mesi che ci vengo, mi sento a mio agio qui. Se per tutto questo tempo non te ne sei mai accorta, significa che non sono poi così rumoroso, no? Non ti daremo fastidio».
Orthilla arricciò il naso. Non era la presenza a darle fastidio, assolutamente. Era il suo carattere positivo a snervarla. A farla sentire inutile e impotente.
«Non mi sentirai neanche. E non verrò a disturbarti. Non l’ho mai fatto, non te ne sai mai resa conto. Hai la mia parola, Orthilla» Brendan le cinse le spalle con forza, la scosse, e Orthilla sentì di voler nuovamente morire nel suo tornado di emozioni confuse.
Era la prima volta che provava tutto ciò in un brevissimo lasso di tempo. Significava per caso essere vivi? Forse il ragazzo lo sapeva.
I suoi occhi plumbei conservavano le risposte che cercava. E le sue mani calde avvolte intorno alla sua pelle mandavano scariche di sollievo al suo povero cuore sfiorito. Lo invidiò moltissimo, e allo stesso tempo sentì di volerglisi attaccare ad un braccio e non mollare più il suo calore energico.
Perché non era sufficientemente forte per sollevarsi da sola?
«Va bene» mormorò, sconfitta da quell’insistenza.
Quando le dita di Brendan scivolarono via dalle sue braccia si sentì abbandonata. Proprio come avevano fatto le lettere dello zio, il palcoscenico, le luci della ribalta, i fan, le persone, il mondo, tutto, persino lei. Era bastata una goccia, e l’intero oceano l’aveva affogata e sotterrata nella sua vastità. Impossibile per lei trovare una via di salvezza… sospirò al pensiero e guardò il disordine di casa sua. Si sentiva molto scossa.
«Dici davvero?».
«Certo, mantieni la parola data però».
«Lo farò!» Brendan afferrò la borsa, se la portò alle spalle e la strinse in un abbraccio frettoloso, quello che molti definirebbero “abbraccio tra amici”. Poi le sorrise grato e uscì dall’abitazione, chiudendosi la porta alle spalle.
Solo quando lo vide allontanarsi dalla finestra, Orthilla ricominciò a tirare fiato. Ansimava, le tremavano le mani. Si accasciò sul divano, lasciando che la luce del tramonto le coccolasse la pelle con i raggi caldi. Le sembrava ancora di avere addosso le braccia di Brendan, il suo odore di ragazzo, la sua barba appena accennata a graffiarle la guancia e stuzzicarle le lacrime.
Rimase sovrappensiero per attimi che le parvero interminabili, le ginocchia cinte contro il petto magro. Aveva un così disperato bisogno di amore. Di carezze, sorrisi che le illuminassero la sua insensata routine. E quando se ne accorse, lì, in quel divano così grande, stretta intorno al suo corpo gracile, cominciò a innervosirsi.
Era spaventata, e confusa. Si aggrappò agli intensi attimi vissuti prima come un’ossessa; aveva paura che si dissolvessero nel vuoto. Che sparissero, e che si portassero via con loro l’unica possibilità, forse, di salvataggio.





NdA
Eccoci qua col terzo capitolo! Allora. Da qui in poi la storia comincerà a prendere un moto un po'... diverso. Questo era solo un capitolo di transizione, spero comunque sia stato di vostro gradimento. Quello che mi preoccupa non è tanto il ritmo della fiction, perché vedrete che si adatterà perfettamente al contesto - per cui non è veloce o affrettato, nel caso disperato di Orthilla il tempo va bene -, più che altro, spero di rendere molto chiare le emozioni della ragazza.
Non so, ho paura di non comunicare abbastanza (?) Per quanto riguarda Brendan, verrà approfondito più in là come personaggio, non sottovalutatelo u.u
Ora vado! Buona estate a tutti, recensite se vi va, i pareri fanno sempre piacere <3


Bye
Lou

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