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Herr - Once Upon Another Time - I pt. 1





I pt.1


Once upon another time
somebody's hands who felt like mine
turned the key and took a drive
was free

Highway curve, the sun sank low
Buckley on the radio
cigarette was burning slow
so breathe

Just yellow lines and tire marks
and sun-kissed skin and handle bars
and where I stood was where I was to be

2005
07/06/05
Il sole cocente di giugno splendeva su Kanto a guisa di palla di fuoco, irradiando del suo calore ogni oggetto che si trovasse sotto il suo spettro di azione. Raggi caldi, che scintillavano sui fiumi e sui laghi della regione, che schiudevano i petali dei fiori nei campi e che, in quel momento, si divertivano ad infilarsi in ogni angolo e cunicolo dell’Indigo Plateu, dando l’impressione che quel luogo fosse un diamante di luce.
La terra del campo da battaglia era battuta e sparsa sugli spalti, buchi e scalfiture che la percorrevano da un lato all’altro. Una leggera brezza spingeva i detriti che rimanevano a vagare, a trasformarsi in mulinelli, in vortici e poi a scomparire lì, dove si erano formati. Una struttura di ghiaccio, o quel poco che ne rimaneva dopo l’azione del sole, correva sul lato nord degli scalini degli spalti, e da lì formava una suggestiva cascata che ricadeva, indietro, sul campo.

«Pensavo fosse più grande la medaglia».
Red si rigirò un quadratino scintillante di metallo nella mano: raffigurava l’edificio della Lega. Come fece scivolare la superficie sul suo pollice, una macchia striata di grasso si posò sull’altrimenti intonso metallo.
«È simbolica».
«Già» mormorò. «La perderò, in ogni caso, appena arrivato a casa».
Era seduto su una sedia di ferro battuto, o per meglio dire disteso e dondolante, quasi, sulle gambe posteriori, mentre il sole lo baciava in fronte. Davanti a lui una lunga balaustra di ottone correva a ricoprire il perimetro della terrazza, dietro la quale poteva contemplare in tutta la sua bellezza il paesaggio dell’Altopiano Blu, dalle verdi montagne che chiudevano l’orizzonte a nord alle dolci pianure che scorrevano sotto di esse. Ad occhio e croce, erano a qualche decina di metri da terra, aggettati su di una collina che troneggiava su quella bassa pianura. Il resto del pavimento, di vetro, lasciava trasparire tutto ciò che era sotto la terrazza.
Blue, dal canto suo, lo osservava, la schiena appoggiata alla balaustra, mentre godeva dei caldi raggi solari che gli riscaldavano il collo.
«Hai già intenzione di tornare a casa?».
Red asserì.
«Pensavo volessi goderti la fama».
«Nah». Appoggiò la medaglia sul pollice, e la schioccò in aria; con la sinistra la riprese al volo. «Tanto arriverà comunque qualcuno più bravo di me. In più, non ho voglia di restare qua».
«Non è così male».
«Vabbè» sogghignò. «Voglio andare a casa e basta».
«Come vuoi».
Blue si passò una mano nella folta chioma rossiccia, per poi sollevare la ringhiera dal fardello del suo peso. Spinto in avanti, usò quell’inerzia per avviarsi verso l’interno della Lega.
«Ti aspetto dentro. Devi firmare un paio di carte».
«Un paio» gli fece eco Red.
«L’ultima volta ci sono rimasto quattro ore. Ti conviene cominciare».
«Ok» borbottò, spostandosi sul ciglio della sedia. « Arrivo».

Il sole puntava in direzione del Monte Argento, dove a breve sarebbe affondato tra le vette nevose ed i ghiacciai sempiterni che dividevano Johto e Kanto. Caldi raggi dorati giungevano perpendicolarmente al viso di Red, osservante lo spettacolo naturale davanti a sé, e proiettavano ombre altrettanto estese lungo il loro cammino.
Una larga strada si snodava di fronte, serpeggiando all’orizzonte tra le verdi distese dell’altopiano. Una macchina rosso scintillante sbarrava la strada all’altezza dei due ragazzi, ed attorno ad essa scatoloni su scatoloni recanti il logo della Lega.
«Sicuro di non voler venire con me?».
Blue sorrise. «Voglio usufruire dell’idromassaggio ancora per qualche giorno».
«Ottimo…» mormorò.
«Non sembri convinto» rispose l’altro, afferrando uno scatolone sul quale la scritta “CLOTHING” era stata appiccicata dappertutto. Aprì il portabagagli e lo ripose dentro.
«Lascia, facci—».
«Tranquillo, credimi».
Red scrollò le spalle ed a sua volta prese in mano uno di quegli scatoloni. «Sono solo un po’ stranito, tutto qua».
«Sei il Campione della Lega» rise «fa quest’effetto».
«Anche a te?».
«Nah». Prese in mano un’altra scatola. «Sapevo non sarebbe durato».
In poco tempo ebbero finito di montare tutto il merchandising in omaggio sulla macchina, e Red tornò dentro l’edificio della Lega a farsi consegnare le chiavi del bolide, mentre Blue godeva il suo meritato riposto reclinato sul cofano, il sole al tramonto che disegnava sulla sua pelle cerchi rossi e porpora.
Poco tempo dopo, udì il rumore dei passi del castano avvicinarsi.
«Non hai intenzione di parlare di quello che è successo, quindi?» fece, alzatosi per dare l’ultimo saluto all’amico.
«Cosa intendi?».
«Mh». Blue trattenne un sorriso. « Ti dà così tanto fastidio dirlo?».
«Non capi—».
«Sesso, Red. Sesso».
Il viso di Red rabbuiò.
«Ciao, Blu—».
Il rossiccio afferrò il suo braccio. «Non hai nient’altro da dire?».
«Non c’è niente da dire» rispose seccato.
«Red…».
«Mollam—».
Non fece in tempo a finire l’ordine che Blue l’aveva costretto a sé, stretto il braccio sul suo petto, bocca nella bocca, in un fugace bacio. Il tempo di rendersi conto di quello che stava accadendo, Red decise che avrebbe potuto rimanere così per qualche secondo.
E quel secondo si prolungò ad un minuto.
Dopodiché Red si ritrasse.
«Ci vediamo, Blue».
Inforcò le chiavi nella toppa, le ruotò ed aprì lo sportello a sé e, prima che Blue potesse accorgersene o salutarlo, la macchina di Red, e lui con essa, stava sfrecciando sull’asfalto bollente.
«Ciao…» mormorò, senza essere udito.

12/09/05
«…nte ad aver vinto la 40esima edizione del Torneo di Gare Pokémon di Hoenn? Be’, è un’emozione indescrivibile. Ho sempre guardato da bambina queste competizioni, e potervi partecipare e addirittura vincere è qualcosa di magico… E come ha cominciato? Vuole dirci qualcosa in più dei suoi primi passi? Be’, certo, c’è da dire che ho cominciato molto picc—».
Il ronzio proveniente dalla televisione fu interrotto da un ben più squillante rumore di campanello.
Red aprì gli occhi, ed osservò la stanza attorno a sé. Una lattina di birra, visibile attraverso la superficie vetrata del tavolino, giaceva rovesciata sul pavimento, circondata da un alone giallognolo, mentre più in alto, sul tavolo in sé, era una ciotola piena di popcorn e dei sacchetti di patatine aperti da tempo. Spostando lo sguardo più in là, la televisione aveva accompagnato con il suo mesto sottofondo il riposo del giovane.
Si guardò attorno, spaesato, e poi ricordò: la pizza.
Cacciò i piedi sotto il divano alla ricerca delle pantofole e poi si alzò, con fatica, scostando una patatina dalla sua maglietta “Kanto’s Champion”.
La porta suonò altre volte, alle quali rispose sommessamente («Arrivo…»).
«Quanto le devo?».
«1000 ¥».
«Grazie mille».
Udì un «Arrivederci» come chiudeva la porta davanti a sé e si apprestava a ritornare sul divano.
Schiaffò il cartone di pizza sul tavolino e si gettò nel divano, girandosi poi su se stesso per distendere la schiena sulla morbida superficie.
Inforcò una fetta di pizza in bocca e rimase immobile a guardare le immagini che scorrevano alla televisione.
«…i sono i tuoi piani per il futuro? Vorrei andare a Kanto, magari tentare con qualcosa di diverso… la Lega forse. Vorresti diventare un’Allenatrice? Be’, in realtà lo sono già, solo che non ho mai…».
Il suo sguardo vagò nuovamente per la stanza.
Qualcosa lo infastidiva.
Aveva passato l’estate così, disteso sul divano, ad osservare la vita che scorreva davanti a lui. Saffron City si era rivelata più noiosa del previsto, o forse era il suo comportamento che faceva trasparre questo lato della città.
Qualsiasi fosse stata la risposta, a Red non interessava. Un vuoto, una continua sensazione di inadeguatezza, di attesa di essere completato lo pervadeva. Come se si fosse dimenticato qualcosa a casa, qualcosa che non riusciva bene ad inquadrare.
Il suo sguardo ritornò sulla pizza, della quale bramava un altro pezzo, e per caso la vista cadde sul telefono, che giaceva in parte al cartone.
Come si chinò per raggiungere la pietanza, ritornò indietro telefono in mano.
«Come va?» scandì, mentre le sue dita correvano attraverso la tastiera del telefono. «No. Mh… Ciao! Come stai?». Cancellò la frase precedente ed optò per la seconda, ma anche quella gli fece storcere il naso. «Ciao Blue, sono Red. Volevo… macché».
Fece cadere il telefono sul suo ventre.
Anche il solo scrivere un messaggio richiedeva uno sforzo per lui insormontabile.
Colto da un’improvvisa ispirazione raccolse il cellulare e corse sulla rubrica alla ricerca del numero di Blue. Ci cliccò due volte sopra, finché lo schermo non s’illuminò con il suo nome al centro.
Non rispondere… pensava fra sé e sé Red, non rispondere…
Quando la udì.
«Pronto?».
La sua voce.
«Pronto?».
«Ehm… ciao».
«Red?». Poteva udire un tono di sorpresa misto a contentezza nella sua voce.
«Sì…».
«Non pensavo avessi un telefono» rise. «Comunque, mi fa molto piacere sentirti».
«Oh… anche— anche a me».
«Dovevi dirmi qualcosa?» lo incalzò Blue.
«In— in realtà sì. Pensavo… che potremmo vederci».
«Fisicamente?».
Red deglutì. «Sì. Qua a Saffron. Sempre… sempre se ti va».
«Ok, sì, nessun problema».
Gli occhi del giovane si illuminarono.
Un’impresa che gli era sembrata tanto ardua e insormontabile un minuto prima, non si era rivelata altro che una bazzecola.
«Oh… bene, quindi?».
Blue rise. «È una domanda?».
«No. Bene. Ci— ci vediam—».
«Aspetta! Devi ancora dirmi la data!».
Si lanciò sul tavolo del soggiorno ed afferrò un pezzo di carta ed una penna. «Ok… direi che possiamo vederci la prossima settimana… il 18. Ok?».
« Mh-h. E dove?».
Red scrisse 18 con una disctubiile calligrafia. «Direi a casa mia… alle 5».
«E casa tua…?» rise Blue.
«Sì, sì, scusa… Courtyard Street, di fronte al parco».
«Ottimo, ci sarò. Ciao Red».
«Cia— ciao Blue».
Red sorrise.

18/09/05
Blue indossava un paio di pantaloncini corti di tela bianca con striature azzurre la prima volta che lo vide da quell’estate. Una camicia, i cui ultimi bottoni erano stati accuratamente sbottonati – o forse per pigrizia – correva aderente sul suo petto, evidenziando le snodature dei muscoli e la fisicità del ragazzo.
Red, dal canto suo, indossava una felpa e dei jeans che aveva lavato il giorno prima in fretta e furia.

Red sbatté la porta di casa dietro di sé come seguiva con lo sguardo Blue muoversi dentro il suo appartamento.
«… e così le dico “Secondo me quel vestito non ti sta bene”» urlò, mimicando le movenze di una donna «e lei è im-paz-zi-ta! Ti rendi conto? ».
Si lasciò cadere sul divano come un peso morto, e per un momento chiuse le palpebre.
«Non immagini neanche com’è stato lavorare con lei… mio nonno non vedeva l’ora di levarsela di torno. Cioè, una roba assurda».
Red era entrato in una dimensione ovattata, e alle sue orecchie non giungeva nessun suono che venisse processato al cervello. Osservava incantato i movimenti del corpo di Blue, che si snodava come cercava la posizione ideale per giacere sul divano, e nel farlo Red era rapito.
«Non… non ho parole» mormorò, e si lasciò cadere anche lui su un divano di fronte all’amico.
«Già… in più pensavo che ci provasse con me». Lanciò un’occhiata al castano. «Ad ogni modo… hai da bere in casa?».
«Uh?». Il suo viso si illuminò. «Da bere? Sì, sì, ho qualcosa».
Si sollevò stancamente dal divano e trascinò le sue stanche membra alla cucina, dalla quale Blue poteva seguirne l’ombra che si divincolava proiettata sul corridoio. Rumori acuti e vetrosi provenivano da quel luogo, rumori che indussero Blue ad alzarsi ed a controllare per sé se effettivamente ci fosse stato qualcosa da fare in quel momento.
Vide Red in punta di piedi, completamente stirato dal pavimento al punto più alto della credenza, sopra la quale la mano andava a tentoni nella speranza di trovare una bottiglia di scotch.
Blue si mosse in quella direzione, superò l’isola che troneggiava al centro della stanza e finì a qualche centrimetro da Red, una distanza pericolosamente corta, braccato dalle sue braccia.
«Eccola!» fece, non resosi ancora conto, e quando scese si ritrovò il viso del rosso spiaccicato sul suo.
«Fammi pas—».
«Non importa» lo incalzò, e afferrò la bottiglia dalla sua mano, dopodiché le mise sul piano della cucina. Le sue braccia strinsero Red in una morsa, ed i loro corpi si fecero vicini, tanto da toccarsi.
«Lasciami andare» sussultò Red.
«Shh—».
«Non… non sto scherzando!». Spinse Blue sull’isola. «Lasciami… lasciami andare». Afferrò la bottiglia e si diresse in cucina.
«Che…?» esclamò Blue, spiazzato da quanto accaduto. «Che cosa ti è saltato in mente?».
Lo seguì fino al salotto.
«A me? A te, piuttosto! Ti sembra nor—».
«Certo che mi sembra normale! Cazzo!» urlò. «Prima mi inviti a casa tua e poi mi tratti così!».
«Non so cosa tu stessi pensando—».
«La smetti, Red? La smetti, cazzo? Non ha senso quello che dici».
Red fece per avvicinarvisi, ma Blue si ritrasse e scomparve nel corridoio.
«Dove stai andando?».
«Via».
« Cos— Aspetta, Blue!».
«Non aspetto un cazzo».
Vide il rosso avvicinarsi alla soglia della porta, ed il suo primo istinto fu quello di afferrargli il braccio. Lo spinse verso di sé, ed egli cedette.
«Cosa c’è?» fece, stizzito.
«A— aspetta! Rimani».
«A fare cosa?» lo incalzò « a guardarci negli occhi?». Strinse i denti.
«Potremmo…».
«Un cazzo, Red, te lo dico io. Ciao».
In tutta la sua rabbia – o fastidio –, ebbe cura di accompagnare la porta come si apprestava ad uscire.
Red stette ad ascoltare il rumore dei suoi passi che si allontavano.
Lanciò un pugno verso la porta.

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